Quei ventuno corpi senza vita erano donne che inseguivano un futuro

Prima di essere ventuno donne morte, le migranti che hanno perso la vita su un barcone mercoledì 20 luglio, erano ventuno donne fuggite dalla guerra, dalla carestia, dalle persecuzioni. Erano ventuno sopravvissute, erano ventuno guerriere, ventuno sognatrici. Volevano un futuro migliore: per la propria famiglia, per i propri figli, per se stesse.

Volevano quel futuro che ogni donna occidentale difende, insegue e spesso ottiene. Un lavoro, una casa, la libertà personale. Tutte quelle cose che ti fanno dire “ce l’ho fatta”, che ti permettono di camminare per strada a testa alta. Ma quei diritti, quella dignità di cui tanto si parla, sono rimasti sepolti dentro a un barcone, dentro a una pozza di carburante e acqua salata. Dentro a ventuno corpi senza vita.

IL MARE E’ STATO MAGNANIMO, I TRAFFICANTI DI UOMINI NO

Mercoledì notte c’era la luna piena. Non c’era vento, non c’erano onde. Il mare era calmo, silenzioso, immenso. Mercoledì notte c’era anche qualche stella, a illuminare il cielo scuro, a indicare la via, a dare speranza.

Mercoledì notte 231 persone hanno pensato: ce la faremo. In fila indiana, salendo sulla vecchia barca, hanno chiuso gli occhi e hanno immaginato l’Europa. E poi, accatastati gli uni sugli altri, l’aria densa e umida nei polmoni, gli arti doloranti, i corpi feriti, la fame nello stomaco e la paura nel cuore, si sono detti: ne vale la pena. E, stringendosi le mani gli uni con gli altri, forse qualcuno, il più coraggioso o il più incosciente di tutti, avrà sussurrato: questa notte noi non moriremo.

Il mare è stato magnanimo, mercoledì notte. I trafficanti di esseri umani no. In quei 231 volti non vedevano anime ma soldi. E così, uno sopra l’altro, dentro il barcone, stipati, ammassati. Sul fondo, le donne. Forse avevano paura, volevano proteggersi, non vedere il mare. Forse non contavano abbastanza, non avevano pagato abbastanza. O forse qualcuno aveva già deciso per loro: non meritavano di vivere.

VENTUNO CORPI E UN VUOTO INCOLMABILE

Quando la nostra equipe si è avvicinata al primo gommone, ha visto dei cadaveri che giacevano sul fondo dell'imbarcazione in una pozza di carburante", ha detto Jens Pagotto, capomissione di Medici Senza Frontiere per le operazioni di ricerca e soccorso. "I sopravvissuti hanno passato diverse ore a bordo con i cadaveri”.

Quando la nave Aquarius di Medici Senza Frontiere ha raggiunto l’imbarcazione, era troppo tardi. Erano ventuno. Erano giovani, poco più che ragazzine. Giacevano li, in una pozza di carburante e di acqua salata, la pelle ustionata, gli occhi chiusi, le bocche serrate in una smorfia di dolore, i corpi schiacciati dal peso dei vivi.

Erano ventuno. Ma il vuoto che lasciano non ha numeri.

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